ROBERTO OSCULATI

Ordinario di Storia del Cristianesimo
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Catania
(1987 - 2012)
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"In his omnibus mysteria continentur".
Nota sull’esegesi giovannea di Roberto di Deutz (1076? - 1129)

in "Florensia", XIII-XIV (1999-2000), pp. 331-338

1. Storia e mistero

"Secondo il suo costume il santo evangelista anche in questo passo allude ai misteri celesti e, mentre sembra camminare con i piedi tra realtà della terra, ovvero tessere una semplice storia, vola in alto", così Roberto di Deutz traccia un rapido profilo di Giovanni, commentando il pianto di Maria fuori dalla tomba di Gesù il mattino della risurrezione (Giovanni 20,11). L’esegeta si trova dinnanzi un racconto ricco di molti particolari che delineano quasi una serie di scenografie. Egli non dubita che esse presentino autentiche parole di Cristo ed eventi davvero accaduti. Ma, nella loro medesima natura storica, tutti i tratti del racconto indirizzano lo sguardo verso realtà sublimi, nascoste all’occhio superficiale. Dove agisce il Verbo divino divenuto carne umana, l’obiettività dei fatti si trasforma subito in segno e parabola, indici terrestri del mistero divino. Tra la ricerca del credente e l’effusione misericordiosa del divino nell’incarnazione del Verbo e nel dono dello Spirito la parola evangelica costituisce un tessuto di simboli. Essi conducono dal divino all’umano, mentre elevano l’umano al divino. Ogni singolo tratto dell’evangelo va così accolto come una sollecitazione, come un gradino di quella lunga scala apertasi tra due mondi lontani. La colpa ha prodotto estraneità tra il mistero di Dio e la ricerca umana di giustizia. La grazia divina colma questo abisso e nella sua condiscendenza si avvicina all’umanità smarrita e sconvolta. Se si percepisce il mistero nascosto in ogni singolo aspetto del racconto, la fede viene alimentata, la speranza nutrita, la carità accesa e tutto l’uomo interiore viene rischiarato come da un’effusione di luce mattutina.

Il Verbo, luce divina fatta carne umana, illumina di sé l’animo del lettore e Giovanni "ha contemplato con vista limpida il Cristo sole di giustizia, che si muove nel suo cerchio e che ritorna sui suoi giri (Ecclesiaste 1,5), ovvero che dà ordine a tutto e dispone tutto nel suo segreto volere. In questo evangelo egli ha disegnato con un intelligente stiletto le sue vie come in un luminoso orologio, affinché il diligente lettore, nonostante i suoi occhi cisposi, osservi in ogni modo il cerchio della sua sapienza e i circoli delle sue volontà". Così dappertutto sono "contenuti misteri".

Lo Spirito Santo stesso ha preso dimora nell’evangelista, che trasse i tesori della grazia e della verità dalla bocca stessa di Cristo, li raccolse nelle profondità della sua memoria, li conservò integralmente, li produsse fedelmente, in modo da fornire alla chiesa d’ogni tempo la ricchezza della sua dottrina.

Roberto di Deutz considera Agostino quale esempio massimo di intelligenza della parola giovannea. Ma l’antico maestro, come una grande aquila, si levò fino alle vette delle montagne nella sua speculazione teologica. Il monaco medievale pensa di rimanere più vicino alla terra ed insiste sulla necessità di comprendere la lettera dell’evangelo in modo adatto ad intelletti meno elevati. Assiduo lettore delle Scritture, egli dispone di un metodo esegetico fatto di continue correlazioni tra l’Antico ed il Nuovo Testamento e all’interno di quest’ultimo. Nell’evangelo giovanneo il suo orecchio esercitato coglie subito i riflessi della profezia ebraica, della preghiera salmodica, della ricerca sapienziale. Nella rivelazione ad Israele si preparano i temi fondamentali che Gesù e il suo discepolo prediletto metteranno definitivamente in luce. Allo stesso modo il monaco coglie le assonanze con il messaggio paolino della fede, della grazia, del battesimo, della chiesa quale universale corpo di Cristo.

L’evangelo è letto pertanto come una tessitura coerente e sottile che fa parte a sua volta dell’organismo delle Scritture ebraiche e cristiane, assunte nella loro completezza. Esse delineano in modo organico il panorama spirituale della dottrina cristiana, che è andata formandosi fin dagli inizi della storia del mondo e che è preparazione del compimento. L’enigma dell’universo e dell’umanità, della luce e delle tenebre, del bene e del male, della giustizia e della colpa, della sapienza e dell’ignoranza è spiegato colà in un modo conclusivo. La Scrittura diviene così una specie di enciclopedia etica, che mostra le vie della liberazione attraverso la grazia, per costruire l’umanità erede del regno di Dio e conforme alla sua elezione.

L’esegesi del monaco tedesco assume un tono dottrinale molto denso: la Trinità, l’incarnazione, il dono dello Spirito, la grazia, la chiesa, il battesimo e l’eucaristia costituiscono i pilastri della sapienza biblica. Tutta la narrazione, dalla Genesi all’Apocalisse, verte sulla conoscenza del divino come suprema fonte di vita e sulla sua manifestazione nel mondo ottenebrato dalla colpa. La storia insieme reale ed ideale delle Scritture, fin dalle sue prime pagine ed in tutto il suo percorso, mostra sempre lo stesso mistero fondamentale della grazia. Si tratta di una lunga economia, che va svolgendosi fino alla sua perfezione nell’apocalittica città di Dio, liberata da ogni male e irrigata dall’effusione dello Spirito divino. Proprio per questa sua visione dinamica e coerente della storia il monaco, autore di un vastissimo commentario all’evangelo giovanneo, profonde pure la sua intelligenza biblica in un’accurata esegesi dell’Apocalisse come libro delle opere di Cristo e dello Spirito nell’umanità.

Il divino è concepito come un fiume di vita e di luce, di cui la creazione è riflesso. Il Padre è l’origine di questo processo circolare in cui tutto è racchiuso. La Parola è l’espressione razionale della vita divina ed assume la carne per manifestare agli esseri umani la verità, la misericordia e la grazia. Lo Spirito è l’effusione santificatrice della vita e sua continua manifestazione. La teologia trinitaria esprime la sostanza più profonda delle Scritture. Dovunque nel racconto biblico si trovano le tracce della triplice comunicazione del divino e il monaco è soprattutto attento ad illustrare i doni dello Spirito, con cui l’opera divina nel mondo assume il suo volto più compiuto.

All’indagine sul nesso tra la comunicazione del divino e il lungo percorso delle Scritture il monaco ha dedicato un’opera molto voluminosa. La storia dell’universo vi è divisa in tre stadi: dal sorgere della prima luce alla caduta del primo uomo, da questa all’incarnazione e passione del secondo uomo, da qui alla risurrezione dei morti. La prima parte è propria dell’attività del Padre, la seconda del Figlio, la terza dello Spirito Santo.

Tutto il contenuto delle Scritture è percorso per individuare il mistero del divino e dell’umano cui sempre alludono gli eventi narrati. L’economia della creazione, della rivelazione e della santificazione deve giungere alla gloria dell’uomo perfetto, del Cristo mistico ripieno dei doni dello Spirito Santo e formato da tutti gli eletti, chiamati fin dall’origine del mondo e giustificati per la fede ad opera della grazia.

2. La chiesa delle genti

Il racconto storico dell’evangelo possiede sempre un duplice volto. Esso narra eventi accaduti nella dimensione dello spazio e del tempo, ma insieme manifesta la realtà più profonda che ha le sue origini nel divino e si avvicina misericordiosa all’umano. I fatti sono dotati di un significato teologico, rivelano il senso della storia rispetto a ciò che la trascende e la conclude. La lettera della narrazione è come una scorza che nasconde una grazia spirituale: "Praesentis ergo lectionis mysteria [...] enucleare conemur ipso adiuvante, cuius intimam sub cortice litterae gratiam veneramur". La parola divina fattasi carne umana parla pure con i fatti e dietro ad ogni suo gesto si nasconde un dono universale. Ciò corrisponde ad una pedagogia divina che manifesta la realtà spirituale attraverso i modesti simboli della vita comune, come avviene ad esempio nelle parabole ed è mostrato accuratamente nel racconto riguardante la donna di Samaria.

"Gesù dunque affaticato per il cammino, sedeva qui sulla fonte. Era quasi l’ora sesta", recita il testo. Chi si pone alla ricerca del mistero racchiuso in questa prima scena coglie subito il riflesso di un’altra verità. Come l’immagine del sole si riflette nell’acqua della fonte, così la fatica di Gesù e il suo gesto rispecchiano un’altra fatica ed un altro riposo. Già erano stati accennati nel discorso sul tempio del suo corpo (Giovanni 2,19-21). La vera fatica di Gesù sarebbe stata causata dal viaggio della sua umanità attraverso la passione, il dolore e la morte. Poi si sarebbe seduto alla destra del Padre ed avrebbe ottenuto in eredità le genti, liberate dalla cupidità umana e dalla sapienza filosofica. Avrebbe raggiunto una meta di cui il lascito di Giacobbe a Giuseppe era solo un segno. La sete che ora lo coglie è un’allusione a quella di cui avrebbe sofferto sulla croce (Giovanni 19,28-30). Essa sarebbe stata spenta dalla fede delle genti, le quali a loro volta si sarebbero abbeverate all’acqua viva poi fluita dal suo corpo ucciso. L’ora del mezzogiorno poi indica la pienezza dei tempi.

La donna di Samaria, che viene ad attingere acqua, è segno delle genti alla ricerca della sapienza nelle scuole filosofiche e le parole rivolte a lei da Gesù sono un indice della grazia che si sarebbe effusa su tutti i popoli. Infatti egli ignora la sua indegnità e si rivolge per primo a lei. Come sempre agisce la grazia senza alcun merito umano, in anticipo rispetto all’azione della chiesa, simboleggiata dai discepoli, che sono assenti. La divina sapienza eleva la donna dall’acqua visibile alla grazia dello Spirito, ancora ignota alle genti e respinta dagli ebrei. Il battesimo l’avrebbe donata a chiunque l’avesse richiesta e si sarebbe formata quell’unica chiesa di cui la donna di Samaria è il tipo. Qui l’acqua sarebbe divenuta origine della vita eterna: "Quest’acqua è lo Spirito Santo, quest’acqua è Dio. Quest’acqua nel cuore di Dio Padre è la fonte della vita, nella bocca di Dio Figlio è fiume di grazia e di pace [...]. Da chiunque venga bevuta essa risale alla sua origine nell’abisso dell’eterna divinità, più profondo dell’inferno, più lungo della terra, più vasto del mare e più alto del cielo". Quando quest’acqua ha invaso l’animo del credente, lo rende "fonte dei giardini, pozzo d’acqua viva" (Cantico 4,15). La donna invoca quest’acqua e il monaco la proclama beata con la chiesa diffusa in tutto il mondo e in attesa del dono dell’acqua spirituale.

Tuttavia prima di accoglierla occorre riconoscere la propria colpa ed appellare alla misericordia divina. I cinque uomini che ella avrebbe avuto sono i cinque sensi, con cui l’umanità ha peccato, e colui con il quale vive è il diavolo. La donna riconosce in Gesù il profeta, l’uomo della verità divina. Oltrepassando la sete d’acqua, mostra la sete di verità del suo spirito. Infatti "aveva un’altra sete oltre la sete del corpo, a motivo della quale veniva ad attingere acqua, ovvero la sete di ascoltare la parola di Dio. La conosceva benissimo quello stesso irrigatore di menti che parlava con lei".

La samaritana domanda ora quale sia il vero luogo di culto e, avanzando questa richiesta, "la saggia donna già di sicuro chiedeva l’acqua viva e, piegata sull’orlo della fonte eterna, immergeva, per attingere, il secchio capace di un desiderio grande ed avrebbe trovato più acqua viva di quello che fino a quel momento potesse immaginare". Il suo desiderio di conoscere la verità viene soddisfatto dalla profezia del culto spirituale. L’ordinamento religioso d’Israele e delle genti sarebbe stato abolito dalla nuova manifestazione di Dio come Padre attraverso l’umanità del Figlio e l’effusione dello Spirito. Il dono di quest’ultimo avrebbe reso capaci di aderire alla economia escatologica, in cui la preghiera sarebbe stata riassunta dall’invocazione "Padre!", caratteristica della comunità cristiana. E ancora una volta il monaco insiste nel connettere l’insegnamento fornito alla donna di Samaria con la profezia della distruzione del tempio di Gerusalemme e dell’umanità di Gesù come luogo del culto perfetto. Di fronte alla meraviglia dei discepoli, tornati dalla città con le provviste alimentari, si ricorda di nuovo come negli Atti l’opera dello Spirito preceda quella dei messaggeri e "la grande donna, ovvero la chiesa delle genti, che era indicata con questa donna di Samaria" sia stata difesa dall’incomprensione degli zelanti.

Ella abbandona la sua anfora per correre in città e chiamare gli abitanti all’incontro con colui che sembra essere il messia tanto atteso. Nel suo gesto l’esegeta vede indicata la fede della chiesa sorta tra coloro che sembravano estranei alla salvezza: ha abbandonato in gran fretta ogni interesse mondano ed ha accolto il profeta respinto dai suoi. Né alcuna persecuzione ha potuto costringerla a tornare alla sua anfora, ovvero alle antiche abitudini: "Con tutte le pene, con ogni forma di spargimento di sangue la costringevano a raccogliere la sua anfora, che aveva gettato via. prevalse la forza dell’acqua viva, vittoriosa con la sua dolce ebbrezza della carne indebolita, origine di gioia per la mente risvegliata, in modo che non solo non desiderasse di nuovo bere i piaceri disprezzati, ma anche rinunciasse del tutto ai recipienti di argilla delle anime, ovvero ai loro corpi". Ne nacque la chiesa dei martiri, che esce dalla città di Satana e costituisce la città di Dio.

Quando i samaritani ascoltano direttamente la parola di Gesù, rimasto tra loro, non hanno più bisogno di fondare la loro fede sulle parole della donna. Così avviene della chiesa formatasi tra le genti, presso la quale il Cristo secondo lo Spirito riposa. Allora la figura di lei acquista tutta la sua realtà universale ed emblematica: "Quella nostra donna al pozzo, dove ricevette l’acqua viva, dove lasciò la sua anfora e dimenticò i suoi piaceri, anzi versò il suo sangue, cantò a lui il vero cantico dicendo: "Mio amato, ti afferrerò, e ti condurrò nella casa di mia madre e nella stanza di colei che mi ha generato. Lì mi insegnerai i comandi del Signore" (Cantico 8,2)".

La chiesa delle genti, in un primo tempo peccatrice ed adultera, appare inoltre nelle vesti della donna condotta da Gesù per essere giudicata (Giovanni 8,-11). Il gesto compiuto dai suoi accusatori assume un significato simbolico: gli ebrei stessi nella predicazione della legge e dei profeti proclamano l’apertura del nuovo tempio nel corpo del Cristo crocifisso. Lì deve essere condotta la gentilità peccatrice per sentire l’annuncio della grazia e liberarsi dalle sue colpe. Cacciati gli accusatori, colei che rappresenta la nuova chiesa di tutti rimane sola con Gesù e le sono annunciate da una parte la misericordia e la pace, dall’altra la verità e la giustizia. Così "ogni anima, la chiesa universale, un tempo sottoposta al diavolo a motivo dell’adulterio confida di superare la bilancia del giudizio, se, non vuota ma carica di fede e di azioni buone, si rivolge tenacemente alla misericordia".

Marta e Maria sono simboli della chiesa nelle sue due dimensioni, pratica e contemplativa. La chiesa delle genti in loro prefigurata si pone al servizio di Gesù e il profumo offerto da Maria è segno di vita o di morte, a seconda delle disposizioni degli esseri umani.

Nel discorso dell’ultima cena Gesù consola i suoi discepoli con la promessa del dono dello Spirito e paragona la loro condizione a quella della donna in procinto di partorire (Giovanni 16,21-22). Questa immagine diventa comprensibile, se si pensa la chiesa come una donna grande e gloriosa, il cui marito è Dio Padre ed il figlio è Gesù, generato in grazia di un amore autentico. Egli fu concepito ad opera della fede, quando la chiesa era una giovane adolescente ed ebbe il suo inizio nella fede di Abramo. Questa gravidanza continuò attraverso i patriarchi e i profeti fino ad arrivare al dolore della passione e alla gioia della risurrezione, quando il figlio otterrà il dominio di tutta la creazione. L’immagine usata nel discorso d’addio trova il suo compimento sotto la croce, quando la madre genera il figlio nel dolore. Questa era l’ora che le era stata ricordata alle nozze di Cana, a quella mirava la sua maternità e in quel momento avrebbe partorito l’uomo nuovo e giusto. Nello stesso tempo sarebbe diventata la madre dell’umanità redenta dal figlio.

Il monaco ritiene che Maria di Betania, Maria Maddalena e la meretrice dell’evangelo di Luca siano, sul piano storico, la medesima persona. Colei che per prima divenne testimone della risurrezione di Gesù già era spiritualmente risorta, quando aveva dimostrato il suo amore per lui ed in seguito aveva assistito alla risurrezione fisica del fratello Lazzaro. Ciò che in quegli eventi era iniziato si compie ora con la vita nuova di Gesù, sperimentata dalla donna purificata dallo Spirito. Ella mostra il modello di tutta la chiesa delle genti. Mentre la chiesa delle origini, da Abele al malfattore perdonato sulla croce, apparteneva già all’ordinamento della redenzione, la chiesa delle genti ne era esclusa, stava fuori dal sepolcro, secondo il linguaggio simbolico dell’evangelista. Il pianto e il gesto di Maria, che si inchina per osservare la tomba vuota, sono un segno di umiltà necessarie per accogliere il messaggio evangelico. Gli angeli vogliono indicare gli annunciatori dell’evangelo ai popoli stranieri. Il volgersi di Maria verso Gesù indica la necessità di abbandonare il peccato, riconoscere il vero Dio e accogliere con fede il risorto. L’equivoco della donna sull’identità di Gesù è carico di significati reconditi: allude al paradiso terrestre e ad Israele come giardino (Cantico 4,12). Qui la chiesa delle genti trovò il proprio salvatore e lo riconobbe attraverso la legge e i profeti. Finalmente essa lo accoglie come maestro, istruita dalla chiesa delle origini, che era raccolta in Israele.

Maria non deve trattenere il risorto ed anche in questo è figura della chiesa delle genti, che avrebbe dovuto imparare a raggiungerlo attraverso la fede. Infine l’annuncio di Maria ai discepoli si ripete attraverso la chiesa fino alla fine dei tempi con la fede nella risurrezione sia delle anime sia dei corpi. Ripetutamente l’esegeta nell’illustrare queste figure di donna fa riferimento al Cantico dei cantici come suprema allegoria dell’amore tra l’umano e il divino sigillato nell’incarnazione e nei doni dello Spirito. Anche al Cantico fu dedicato un commento, la cui protagonista è Maria, la madre di Gesù.

Conclusione

La legittimità di questa esegesi si fonda sui suoi presupposti dottrinali. Essa è guidata da un’elevata esigenza di individuare una realtà coerente ed organica nella multiformità del linguaggio biblico. Da una parte essa si serve di una dogmatica trinitaria adatta a pensare il divino e le sue opere come un immenso cerchio che tutto in sé racchiude. Dall’altra utilizza un’esegesi biblica che si sforza di individuare le analogie che percorrono tutto il racconto biblico. Dai temi più generali, come quelli della luce, della vita, della grazia, della verità a quelli più specifici come l’uomo, la donna, l’agnello, la colomba, il pozzo, l’anfora, il pane, il vino, l’acqua essa si sforza di percepire una connessione dinamica interna alla letteratura biblica. I temi e le immagini attorno ai quali si organizza il racconto evangelico hanno dietro di sé una lunga storia che va conosciuta e rivissuta dal lettore intelligente. L’esegeta pensa in questo modo di ripercorrere l’itinerario compiuto dall’autore stesso e dal maestro da cui dipende il suo insegnamento. Parole ed opere di Gesù riprendono un tessuto già da lungo tempo preparato e lo conducono al suo compimento. Gli autori evangelici, e Giovanni in particolare, hanno messo per iscritto il frutto della loro partecipazione all’opera messianica di compimento e di attesa.

La parola biblica assume così un carattere enciclopedico, dialettico e pragmatico. Essa vuole coinvolgere in quel processo spirituale da cui è sorta e in cui si rispecchia il dinamismo più intimo della vita divina.

Roberto Osculati